L’utopia annidata nel sogno
“Essere-utopici” come condizione del presente e, dunque, sognare l’utopia (perduta). Il sogno di un’eutopia poietico-musicale. Sono alcuni dei temi di Maerz Musik, che focalizza il teatro musicale contemporaneo
l lavoro di Thomas Kessler, a cui è affidata la composizione dell’inno di Maerz Musik 2010, Utopia, promette un’esperienza musicale indimenticabile sulla falsariga dell’isola immaginata da Thomas More. Nella Grosser Saal della Philarmonie gli elementi della Staatskappelle Weimar sono preparati con vistosi computer, footpedal e altoparlanti. Il software processa in tempo reale alcuni parametri del suono (sensibilmente il pitch) mentre la disposizione del live electronic permette ai singoli performer di operare direttamente sull’output. Molto democratico.
Inizia il concerto e per circa 30 minuti l’orchestra gestisce bizzarri glissando collettivi, il suono degli strumenti ritorna non credibile e produce un inatteso effetto “8 bit”, nel complesso cerimonioso e forzato. Un plauso va senz’altro ai tecnici e gli audio-designer, che apprestano un set up colossale “lato-performer” perfettamente funzionante e senza il minimo intoppo. Peccato invece per un progetto di grande interesse, che tuttavia lascia totalmente inappagata l’emozione musicale.
Per fortuna c’è Stille und Umkehr di Bernd Alois Zimmermann, un lavoro del 1970 che – nonostante gli anni e l’assenza di computer – suona assai più elettronico del precedente, sia dal punto di vista della struttura che da quello sonoro: in una formazione svuotata e originale dell’orchestra, le scarne percussioni e la fisarmonica rompono di tanto in tanto il continuum sonoro ipnotico e stazionario degli archi, creando un intreccio musicale onirico e coinvolgente.
Il lavoro di Lucia Ronchetti presentato alla Sophiensaele sposta l’accento sul lato negativo dell’utopia, focalizzando i concetti di margine e confine. Il suo Der Sonne Engegen è sembrato un esperimento di teatro musicale fresco e innovativo, con idee interessanti sia sul piano musicale che su quello della regia e del testo. Un’opera politica sulle frontiere, una riflessione sulla linea che separa i mondi, come una serie infinita di cerchi concentrici. Un lavoro dialettico, utopico, radioso e al contempo pessimista, cupo.
Come ci spiega la compositrice: “L’aspetto più utopistico dell’opera è forse proprio l’ideazione. Se sia possibile nel dialogo tra una librettista, un regista e un compositore realizzare un progetto di teatro musicale che nello stesso tempo sia un documentario, un’opera che parli di una situazione di sconforto reale. La nostra sfida, la nostra utopia è un’utopia dell’ideazione, sperando che nel linguaggio teatrale emerga il nostro dibattito interno e la nostra documentazione senza per questo rinunciare alla nostra estetica e alla nostra scrittura”.
Una pièce intensa e profonda da cogliere sul duplice piano dell’esperienza musicale e della riflessione letteraria, “non un confetto” – come dichiara la stessa Ronchetti – ma, è vero, un lavoro capace di creare pressione, di spingere l’audience e farsi esperire fisicamente. Le 14 voci e gli ottoni processati con il live electronic creano un dialogo profondo e il tempo travasa dalla musica alla scena. “Volevo avere una formazione speciale con un suono coesivo e invadente”, spiega Ronchetti. “Un gruppo di 5 ottoni, sia a livello visuale che acustico, dà la possibilità di rievocare situazioni di provvisorietà e di musica popolare eseguita in spazi aperti, ma allo stesso tempo é un ensemble completo e può generare un materiale potente ed esplosivo, soprattutto se amplificato e trattato con il live electronic.
La scelta è stata anche dettata dalla volontà di presentare il gruppo vocale come un ensemble a cappella, non accompagnato e, in effetti, l’interazione tra le due realtà è di dialogo indipendente e commento reciproco. Tranne nel finale, nella rivisitazione del Dies Irae, dove sono tutti parte dello stesso ‘naufragio’”.
Tutto accade naturalmente nello spazio disintegrato e fatiscente della Sophiensaele, immersi in una scena povera ma incantata, che regala azioni ed emozioni molto efficaci. Ogni elemento sembra controllato con grande senso poetico, anche nella gestione degli elementi più tecnologici dello spettacolo – le proiezioni e il live electronic – dei quali ad arrivare è prima il contenuto che il mezzo in sé.
Così il video Weltall di Elisabetta Benassi , al pari di un performer, si illumina nel cuore dello spettacolo, facendo luce su inquietanti ibridi corpo-motore accatastati per la rottamazione, rasoterra di possibili rifiuti cosmici, mentre sulla scena fanno ingresso astronauti impegnati in una simbolica colonizzazione dello spazio interplanetario.
Dopo la pièce l’intero edificio della Sophiensaele viene colonizzato da Felix Kubin e dal suo progetto Echohaus , per 6 spazi. Buona l’idea di un concerto che accolga pubblico e performer in un grande contenitore acustico comune, sviluppato in verticale lungo i quattro piani dell’edificio. Più scarso invece il risultato, che lascia troppo spazio al pubblico, trasformandolo infine in un performer pigro e imbarazzato. Mettere in relazione le improvvisazioni dei singoli musicisti isolati nelle grosse sale o negli angoli dell’edificio con ciò che risuona di sotto, nella sala di ascolto e regia, non sembra abbastanza, e le sorgenti di ogni singola performance sono restituite in una miscela sonora indistinta e impersonale.
Al Volksbühne è presentata in anteprima tedesca l’opera Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino, anch’essa al centro del focus sul teatro musicale e risultato di una grossa coproduzione italo-tedesca.
La scenografia, affidata alla celebre artista Rebecca Horn, è minuziosamente curata e impreziosita con oggetti simbolici – come la sedia con i 4 coltelli all’estremità delle gambe – o dall’apparizione di animali in scena – il falco – ma pare sofferente al cospetto dei 70 minuti attraverso cui si sviluppano i due atti dell’opera, segnati profondamente dalla quasi totale immobilità fisica dei tre protagonisti.
Anche sul grande schermo al fondo della scena, sul quale lo scivolare di petali e macchie di colore crea spunti pittorici molto belli e raffinati, rimane in qualche modo confinato al di fuori dell’azione, ed è come se i preziosi elementi di cui è composto l’insieme non riuscissero ad amalgamare. Il dramma dei Malaspina, riadattato dallo stesso Sciarrino sul testo del 1664, Il tradimento per l’onore di Giacinto Andrea Cicognini, è lento e invade la parte strumentale, che invece è magnifica e brulicante e di cui avremmo voluto poter apprezzare appieno il suono scintillante e instabile, diretto ottimamente da Beat Furrier.
Dopo il teatro, al piano superiore è la volta del John Butcher Group , che si esibisce in uno dei concerti più interessanti di questa edizione. L’ensemble, costruito intorno al nucleo jazz sax-piano-percussioni, è composto inoltre da un’arpa, un Guzehng (strumento della tradizione popolare cinese), sintetizzatore, contrabbasso e turntable. Ne segue un fitto dialogo, somethingtobesaid, ricercato, smodato, aereo, violento, al confine tra Fluxus e free jazz. Mentre Thomas Lehn controlla in modo straordinario ogni frequenza, pulsazione e oscillazione generata dal suo Synthi A, Butcher e Robair – al saxofono e alle percussioni – sembrano duellare senza motivo per la leadership, creando di tanto in tanto qualche cedimento nell’insieme. Il risultato è comunque un’affascinante esplorazione dell’interazione corpo-strumento-macchina e 60 minuti di grande respiro sonoro.
Il Collegium Novum Zürich diretto dall’eccelso Sylvain Chambreling è protagonista quest’anno alla Kammermusiksaal con tre magnifiche esecuzioni per ensemble da camera e live electronic, realizzato dall’Experimentalstudio des SWR . Al centro del programma, Così dell’uomo ignara… di Klaus Ospald trasporta per 28 indecifrabili minuti in un mondo sonoro sorprendente, ricco d’interazioni strumentali inedite ricercate sul piano sonoro e mai forzate, le quali s’integrano senza soluzione di continuità con il live electronic, trasportando sia l’ascoltatore che i performer in un sistema complesso di piani, rimandi e connessioni mentali inaudite. Un’esperienza d’ascolto estremamente affascinante, un piacere puro per le orecchie.
Anche la precedente …und… (2008) di Georg Friedrich Haas risuona nuova e potente, nonostante le imprecisioni che ne mettono a rischio l’esecuzione proprio nel momento della sua massima intensità. Infine, il lavoro di Klaus Huber, Erinnere dich an Golgatha…, brano del 1977 rivisitato per l’occasione, rimane in equilibrio precario tra le spazializzazioni elettroacustiche, i 18 strumenti dell’ensemble e il contrabbasso solista.
Più severo e adatto agli amanti dell’esecuzione virtuosa, sempre alla Kammermusiksaal, è il programma dell’Arditti String Quartet, con le nuove composizioni di Brian Ferneyhough, James Clarke, Olga Neuworth e Hugues Dufourt. Lavori in sé perfetti, piuttosto vigorosi e un po’ troppo di maniera, eccezion fatta per in the realms of the unreal di Neuwirth, che affonda l’archetto in sonorità spiazzanti e combinazioni armoniche fantasiose, con coraggio e originalità femminile.
Molto interessante la proposta dell’Ensemble Ascolta, che nel contesto un po’ rumoroso ma intimo della Sophienkirche esegue, tra gli altri, pezzi di giovani compositori. Qui ricevono première V ershütt er ung di Saskia Bladt, la quale si rivela una sorpresa per l’originalità della scrittura musicale e l’utilizzo di effetti acustici originali, come un oscillatore artigianale a molla, e Tulisan II , della meno giovane Meng-Chia Lin , che propone un fantasioso miscuglio di pop e immagini sonore trasognate, che in parte scandalizza, in parte affascina l’audience.
Una cosa a sé è la pièce Telegrams from the Nose di François Sarhan, eseguita dall’Ictus Ensemble alla Neue Nationalgalerie. Un lavoro ironico e tagliente, stralunato, sessuoso e intelligente, suonato con strumenti ibridi quali la chitarra e il violino-megafono, ricco di idiomi ed elementi iconografici e un curioso gioco interattivo di ombre tra il video e la scena. Un’opera non-convenzionale, non-occidentale, polemica e al contempo anti-intellettuale. Utopica.