Silenzio, le declinazioni della sound art
Si è conclusa lo scorso 23 settembre la mostra Silenzio, curata da Francesco Bonami alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, con una buona affluenza di pubblico, un po’ incuriosito dal tema e dalla modalità di fruizione delle opere, un po’ stordito dalla varietà dei suoni presentati.
La modalità di fruizione di Silenzio (cuffie e lettore come una specie di iPod/telecomando) ha reso inedita l’esperienza sociale della mostra, coinvolgendo il visitatore in uno spazio collettivo ma al contempo interiore, con il risultato di vedere strani individui girare in tondo o fissare per decine di minuti le descrizioni delle opere infisse sui muri, spesso unico appiglio visivo. D’altra parte, la difficoltà di usare soprattutto le orecchie in un contesto formale, ha contribuito a mettere in primo piano il concetto, facendolo inevitabilmente diventare il criterio adatto a misurare il valore delle opere esposte sulla base del loro accordo con le pretese concettuali avanzate.
I lavori più interessanti sono sembrati quelli accomunati dalla tendenza a privilegiare il lato oggettivo della ricerca sul suono, ponendo l’accento sul piano concreto della musica e trattando la materia sonora come elemento capace di operare cognitivamente sull’individuo nell’esperienza dell’ascolto, come accade ad esempio nelle registrazioni di Vito Acconci sul linguaggio e la famiglia, oppure evidenziando la natura fisica del suono, come nel caso diModell zur visualisierung di Carsten Nicolai, in cui alcune onde sonore di forma sinusoidale vengono tradotte in un fascio luminoso da un tubo di diffrazione elettronica, o ancora in The Soundmaker, in cui l’artista Julian Rosefeldt gioca sull’ambiguità della percezione ponendo il visitatore di fronte a due situazioni equivalenti dal punto di vista sonoro ma divergenti sul piano visivo, che finiscono per attivare un processo illusionistico per cui non si riesce più a mettere in connessione il movimento percepito nel video con il suono ad esso associato, e quest’ultimo con la sua origine fisica.
Meno convincenti invece quei lavori in cui è la soggettività dell’artista a occupare il centro, chiamando in causa la capacità esecutiva, la bellezza del suono e altri criteri estetici validi per la musica astratta ma forse inefficaci per la sound art. Così ad esempio nell’opera di Susan Philipsz, il cui intento dichiarato è voler restituire un’idea della solitudine umana attraverso l’ascolto di un canto vocale, mantre l’unica cosa a rimanere isolata è l’intenzione dell’artista, che non raggiunge in nessun modo l’ascoltatore e rimane fine a se stessa. Similmente Talk is Cheap , il brevissimo video loop di Adel Abdessemed in cui l’ascolto del rumore prodotto da un microfono calpestato dovrebbe erigersi a simbolo di tutti i soprusi del mondo contro l’ingiustizia sociale e l’arte concettuale, lascia emergere l’ideologia dell’artista a discapito dell’artefatto, come accade nel video di Victor Alimpiev, dove il suono in presa diretta è forse troppo elaborato.
Al contrario, Goldberg Variations di Ceal Floyer ci mette di fronte alla soggettività attraverso l’oggettività della registrazione: l’esperimento di sovrapporre le trenta versioni disponibili in commercio della celebre e omonima composizione di Bach, genera nell’opera una cacofonia straordinaria in cui il giudizio e l’interpretazione impattano violentemente tra di loro lasciando emergere il ruolo del soggetto come scarto o differenza individuale e incomunicabile nell’esecuzione.
Sorprendentemente, un numero considerevole di lavori presenti a Silenzio mettono al centro il legame tra suono e immagine, riducendo di molto il confine tra sound e video art. Kvida vid Grammofon di J. Stjärne Nilsson, tratta il suono con fantasia e ironia in un breve cortometraggio molto ben girato e il bel documentario di Jule Mije sui canti di gola eschimesi, pone l’accento sul gioco e l’etnomusicologia. Altri lavori invece escono un po’ dalla sound art in direzione della musica elettroacustica e della sperimentazione, segnando peraltro il confine problematico tra arte e musica. È questo il caso di Haikustrings di Stefano Pilia , per tre shuffle cd, che riprende la pratica poetica giapponese degli haiku con una miscela random di suoni molti efficaci e piacevoli di per se stessi. Terence Hammam , con la sua proiezione multischermo, enfatizza la ricerca rituale e religiosa della musica dei Sun O))), metal band che suona le chitarre distorte e a bassa frequenza per coinvolgere il pubblico in un’esperienza fisica, inducendo uno stato di trance. Folle inoltre il lavoro di Roberto Cuoghi , che ricostruisce per intero nei minimi dettagli un Mei gui tradizionale cinese, così comeintenso è quello diDiego Perrone , La ginnastica mi spezza il cuore , focalizzato sulla gestualità corporea in rapporto all’esmissione vocale.
Tutti interessanti i lavori degli anni Settanta del Novecento, in cui predomina il tema del linguaggio, studiato come un fenomeno in cui il piano sonoro e quello semantico si mescolano, coinvolgendo la sfera sociale, ideologica e politica. Marcel Broodthaers discute di arte con il suo gatto in Interview with a cat , con grande trasporto di entrambe le parti, mentreJohn Baldessarri canticchia i testi critici di Le Witts, mettendo in risalto in modo biunivoco il gap tra arte e critica. Numerose le opere di Vito Acconci , dalle celebri tape situations fino aThe American Gift , che esplora i problemi della traduzione e della nazionalità, o The Gangster Sister From Chicago Visits New York (A Family Piece) , in cui si ascolta un ritratto tagliente della famiglia americana in cui i coniugi, i figli e Gesù, sono coinvolti in liturgie incestuose e orgiastiche.
Rassicurante la presenza di Kristin Oppenheim , che conferma con due opere recenti il suo talento a richiamare con il suono atmosfere puramente mentali, creando narrazioni oniriche di grande suggestione e intensità emotiva. Toccante il video di Johanna Billing, un magnifico video loop di 6 minuti in cui una classe di bambini di Zagabria viene coinvolta nella preparazione e poi nell’esecuzione della canzone Magical World, di Sidney Barnes, confrontandosi senza mediazione con la realtà esterna lasciata dalla guerra e con la difficoltà di pronunciare una lingua sconosciuta. Nell’opera di William Hunt che rappresenta uno dei pochi eventi performativi di Silenzio, vediamo l’artista autoissarsi a testa in giù a quattro metri di altezza ed eseguire un brano folk per voce e chitarra, con grande cura e precisione nonostante l’evidentissimo disagio, il sangue alla testa e l’impossibilità di contenere le smorfie deformanti del volto trasfigurato dallo sforzo. Il senso dell’azione, che è visibile su un piccolo televisore posto di fianco al marchingegno costruito per autoissarsi, è contenuto nel titolo programmatico dell’opera: The impotence of radicalism in the face of all thede extreme positions .
Pubblicato su Digimag