Beijing Wave
Lo sforzo olimpico è stato solo la punta di un gigantesco iceberg mediatico per rinnovare l’immagine della Cina. Da anni la scena musicale di Beijing costituisce un fenomeno autenticamente rock. Magari paragonabile a quello della New York anni ‘80 o della Berlino dopo la caduta del muro. Ma c’è chi la vede diversamente
Da tempo ormai le notti di Beijing risuonano musica nuova. Gli spazi in cui è possibile assistere a un concerto sono senz’altro pochi, se paragonati alle dimensioni mastodontiche della metropoli, ma in quei pochi metri quadrati si raccoglie un’energia tale da porre la Cina, secondo alcuni osservatori, al centro di un fenomeno di emancipazione politica e sociale giovanile come non si vedono ormai da decenni in Occidente.
Esattamente com’era all’Ufo Club nella Londra degli anni ‘60 o al Café Bizarre nel Greenwich Village, i club di Beijing raccolgono un audience composto perlopiù da musicisti, scrittori, artisti e performer locali, studenti, stranieri e qualche curioso. Le band suonano su assi di legno, tra poche luci e vicino al pubblico, al quale propongono chitarre stridenti e oggetti di ogni tipo, sonorità punk-noise, strumenti tradizionali in distorsione, musica elettronica, jazz. Non molti anni fa un tale movimento sarebbe stato indicato come trasgressivo e perseguito, anche se – va ricordato – l’unica vera conseguenza dell’accorato urlo di Björk, che durante il concerto a Beijing echeggia “Tibet!”, è stata la chiusura immediata del 2 Kolegas, uno dei locali più attivi e influenti sulla scena pechinese.
A ogni modo, oggi Beijing appare una città in fermento. Lo scorso marzo, alla cerimonia per la chiusura dei lavori olimpici organizzata da Mercedes-Amg, il compositore cinese Chen Qigang fu invitato a ritirare il premio in qualità di supervisore delle musiche ufficiali dei giochi. In quell’occasione, Chen ricordò al critico musicale Alex Ross, che era presente, come poco più di un ventennio prima la musica classica fosse un sapere proibito, della fuga a Parigi per studiare musica, e di come in quel giorno si sentisse frastornato a ricevere il premio per un incarico così prestigioso.
A rendere ancora più radicale la trasformazione il fatto che quella bizzarra mescolanza di slogan nazionalisti, eccessi materiali e avanguardia tecnologica che caratterizza lo stile cerimoniale cinese si svolgesse negli edifici della 798 Art Zone, il complesso di vecchie fabbriche militari situate a nordest di Beijing, oggi riconvertite in spazi espositivi e simbolo della trasformazione culturale in atto.
Per Michael Pettis, ex professore alla Columbia University e oggi visiting professor di economia a Beijing, non c’è nessun dubbio: “La nuova scena musicale cinese è oggi una delle più eccitanti al mondo”. Michael è proprietario del D22 Club, un locale di successo situato nella parte nordoccidentale della città, proprio in mezzo alle due maggiori università della Cina, l’Università di Pechino e Tsinghua. “Negli ultimi tre anni le più importanti band indie rock, punk e jazz di Beijing sono state al D22. Carsick Cars, Snapline, Ourself Besides Me, Hedgehog, Demerit, Mold, Guai Li, Red Hand and Gars… Tutti considerano il D22 la loro casa”. E, in effetti, i beijinger sembrano amare molto questo club, che vedono come un modello di emancipazione culturale nuovo, ricco di influenze, miti, mode e stili di vita dell’Ovest (in precedenza Michael ha posseduto un locale a New York). A partire dagli ultimi dieci anni i giovani artisti cinesi hanno avuto accesso, grazie a Internet, al repertorio musicale degli anni ‘60 della musica americana e straniera. Questo fatto, secondo Michael, “ha avuto un effetto elettrificante. I musicisti cinesi hanno perciò sviluppato un approccio eclettico alla musica moderna. Shouwang, ad esempio, è influenzato allo stesso modo dai Velvet Underground, Suicide, John Adams, Glenn Branca, dalla musica della Dinastia Qing, da Steve Reich e dai Sonic Youth”.
Certo, la musica e l’arte non procedono per invenzioni come la scienza, ma per intensità. “Una delle cose che mi infastidisce maggiormente”, continua Michael, “è quando il pubblico straniero, e questo è vero soprattutto per quello europeo temo, viene in Cina e si aspetta che i musicisti cinesi suonino come le loro immagini stereotipate della musica cinese. Una volta un reporter televisivo svedese lamentava che il rock cinese suonasse troppo uguale a quello occidentale e allora io ho dovuto ricordargli che il rock è nato negli Stati Uniti, eppure nessuno si è mai lamentato del fatto che le band svedesi suonassero il rock”. Comunque sia, nel rock, i miti funzionano sempre, e il già citato Zhang Shouwang, chitarra e voce dei Carsick Cars e musicista di punta del D22, ama narrare ai giornalisti l’aneddoto secondo il quale passeggiando in un parco della città, grazie alla maglietta con su la banana di Warhol che stava indossando, conobbe il suo futuro manager e amico Michael Pettis.
Ma ora lasciamo il chiassoso D22. A nordest, dalla parte opposta della città si trova il 2 Kolegas, un locale famoso per i concerti blues, noise e punk che ogni sera attirano un nutrito pubblico, ma anche per l’appuntamento del mercoledì, dedicato alla sperimentazione, alla computer music e ai suoni più inusuali. La serata è affidata alla supervisione del critico e musicista sperimentale Yan Jun, attivo sulla scena come performer, produttore e organizzatore d’interessanti eventi collaterali come il Mini Midi Festival, che dal 2005 affianca con sonorità di confine il più noto e maestoso Midi Festival di Pechino. La Cina descritta da Yan appare un po’ diversa: “Ci saranno più o meno quaranta musicisti”, spiega, “sulla scena sperimentale, elettroacustica, impro e noise di tutta la Cina, perciò ci conosciamo tutti molto bene. Internet è il miglior modo per comunicare e gli unici eventi sono solo a Beijing e Shangai. L’unico distributore di cd del genere sul territorio nazionale è Sugar Jar, dunque tutta la scena sperimentale cinese è davvero amatoriale, e le connessioni tra artisti avvengono perlopiù a livello personale”.
Yan Jun lamenta la totale mancanza di sostegno da parte del governo e il chiaro disinteresse dell’ambiente dell’arte contemporanea. “Non hanno bisogno della musica. Se ti rivolgi a loro ti dicono… ok portami un cane ululante per l’apertura della nostra galleria, ti pagherò dieci dollari per il pasto, la strumentazione e tutto il resto”. Yan sostiene che l’autentico underground della musica elettronica cinese sia morto nel momento stesso in cui il governo inaugurò quella che lui ama definire “simulation of freedom age”. Tuttavia, conclude, “esiste oggi sicuramente una nuova musica cinese, forse non così ribelle, non così radicale e neppure così rivoluzionaria dal punto di vista linguistico ed estetico, ma senz’altro tale da poterla definire emergente sulla scena mondiale”.