Paesaggi in movimento
Una disciplina plurale, rivoluzionaria, ma ancora in via di definizione. È il design acustico, i cui teorici si dividono tra sostenitori di una “rumorosa” oggettività e predicatori di una “chiaroudenza” soggettiva. In mezzo, spunta la terza via
Il design acustico è un settore interdisciplinare ancora in fase di definizione, sia pratica che teorica. Sviluppatosi sulla scia delle idee rivoluzionarie di Pierre Schaeffer e messo a punto qualche anno più tardi dal compositore e musicologo Raymond Murray Schafer con l’attivazione del World Soundscape Project, il design acustico ha contribuito a definire l’orizzonte della sperimentazione sul suono degli ultimi trent’anni. Con esiti spesso apprezzabili sia sul piano della pratica compositiva e artistica sia su quello della riflessione teorica, in cui trovano spazio un numero sempre crescente di filosofi, musicisti, antropologi, architetti, ingegneri, sociologi e amatori.
Tra le questioni più discusse, quella della scelta del modello e delle strategie di intervento nell’ambiente si pone ancora oggi saldamente al centro degli interessi degli studiosi, dando vita ad alcune controversie per molti versi paradossali e ambivalenti.
I teorici del modello acustico ambientale ritengono possibile un approccio totalmente oggettivo al suono, concepiscono lo spazio come il contenitore vuoto del suono e sostengono la necessità di pianificare interventi tecnici per migliorare l’ambiente urbano. Di contro, una nutrita schiera di musicisti e ricercatori insiste nel porre l’accento sulle componenti soggettive dell’ascolto e sul legame che unisce, e letteralmente con-fonde, input e output all’interno del paesaggio sonoro. Un posto a parte è occupato invece dalla proposta di Barry Traux di definire progressivamente i compiti del design acustico, tenendo conto di una dialettica della complessità che si instaurerebbe tra micro e macro sistemi all’interno di ciò che lui definisce la comunità acustica.
Secondo i teorici del primo modello il suono è essenzialmente un flusso energetico di informazioni che si muove unidirezionalmente da una fonte di emissione verso un soggetto ricevente. Esso, così considerato, si configura perlopiù come un elemento astratto, misurabile indipendentemente dall’ascoltatore. Questo punto di vista è l’impulso di una lunga serie di iniziative e progetti -totalmente indifferenti alla maggior parte delle amministrazioni locali italiane ma abbastanza diffusi in altre parti d’Europa e nel Nord America- volti a un miglioramento della qualità della vita secondo lo schema rumore=danno.
Anche la politica di sensibilizzazione dei rischi connessi con l’alto livello di rumore sul posto di lavoro, finalizzata alla conservazione dell’udito del lavoratore quanto a quella del denaro necessario per non danneggiarlo, segue lo stesso sentiero, mentre l’industria musicale e l’ingegneria elettroacustica ne sfruttano le intuizioni per definire uno standard di ascolto e di mercato -hi-fi- sempre più esigente e tecnologico. A tal proposito è piuttosto sorprendente notare come le tecniche di esaltazione della massa sonora, come l’enhancement, si muovano esattamente nella direzione opposta a quella dettata dal binomio silenzio/benessere che le ispira, con l’effetto certo di isolare il suono dal suo contesto originale di produzione e quest’ultimo, attraverso le cuffie, dall’ascoltatore. Un destino simile a quello della realtà virtuale nel cinema, la quale, una volta assuefatti, anziché produrre un più forte realismo sortisce l’effetto contrario di uno smascheramento della finzione e di un invecchiamento precoce delle immagini o peggio di uno svilimento del reale; allo stesso modo il suono, separato del rumore, nel lungo periodo finisce col produrre un’intolleranza al suono dell’ambiente.
I sostenitori del secondo modello, quello del paesaggio sonoro, preferiscono privilegiare l’esperienza dell’ascolto, trattano il suono come il risultato di una relazione bidirezionale e continua tra sorgente e ricevente -tenendo cioè conto del soggetto simultaneamente come ascoltatore e produttore di suono- e appoggiano una valutazione non quantitativa del sonoro. In questo senso essi si avvalgono di un’interpretazione del suono già nota ai fenomenologi, che ne esaltano il potere conoscitivo mettendone in luce il legame materiale con la realtà interna della cosa, a differenza per esempio del colore, che si ritiene inerisca solo alla superficie del mondo.
Gli studi sul paesaggio sonoro, che scelgono una metodologia in larga misura qualitativa e si basano perlopiù su differenze percettive, tendono a ricadere nel contenitore teorico dell’etnografia e dell’antropologia, fornendo scarsi risultati sul piano strategico e traducendosi il più delle volte in uno slancio emancipativo, pedagogico o morale. Per il designer del paesaggio sonoro la ricerca del suono coincide con la scelta di alcuni suoni piacevoli e l’esclusione di altri considerati sgradevoli, in vista del raggiungimento di un presunto stadio di superiorità acustica che Schafer chiama chiaroudenza.
Le riflessioni di Marius Schneider sul significato della musica, o ancora il fascino di Schafer per le culture primitive e le cosmogonie antiche, in cui egli vorrebbe rintracciare i segni di un primato sonoro del cosmo, si collocano a questa altezza con un forte richiamo spirituale che poco si accorda con le tecnologie elettroacustiche indispensabili al designer, il miglioramento della qualità della vita e l’ambivalenza contemporanea di natura e cultura nel paesaggio sonoro stesso.