La musica che non c’è
Le avanguardie storiche intuirono il valore artistico del cinema non narrativo. E il trentennio ‘60-‘80 fu un teatro sperimentale di musiche nuove, composte e fruite insieme all’immagine. L’audiovisual come forma di espressione artistica e propriamente musicale...
Fra i topic della ricerca sviluppata dalle avanguardie nel corso degli anni ‘20 e ‘30 del Novecento, l’associazione di musica e film, suono e immagine occupa un posto privilegiato. L’entusiasmo per la pellicola espresso criticamente da Walter Benjamin nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la forza rivoluzionaria delle nuove tecnologie del cinema, come altrettante armi per la lotta moderna tra società e individuo, l’idea di un rapporto inedito tra l’esperienza vissuta e l’artefatto, la possibilità di eccedere il vero a partire dalla sua registrazione… Tutte queste cose affascinarono intensamente gli avanguardisti più eclettici e coraggiosi, i quali contribuirono a porre, in parallelo al cinema, le basi della videoarte e della musica contemporanea legata alla visione.
Il contenuto vitalistico e ideologico espresso nei manifesti delle avanguardie è cosa sorpassata da tempo, il più delle volte sepolto con gli stessi artisti che proclamavano la morte del passato richiamandosi al futuro come slancio, esplosione, irruzione messianica e distruttrice di un’oggettività nuova. Ciò nonostante la forma delle avanguardie è sopravvissuta; le tecniche e gli esperimenti sul mezzo si sono mantenuti giovani, attraversando l’epurazione di elementi romantici e la crescente commercializzazione dell’arte cinematografica.
Per prima la televisione seppe sfruttare il potenziale economico derivante dall’unione di suono e immagini, per straripare in breve tempo dal tubo catodico nelle strade e coinvolgere il pedone (ma già l’automobilista, il passeggero, il turista) in un percorso multimediale architettato sul trinomio suoni-immagini-bisogni. La pubblicità d’altra parte – che dal graffitismo politico antico fino al fotocollage è sempre stata una forma d’arte particolarmente forte – esplose nello stesso periodo i propri confini grazie alle nuove tecniche che permettono di registrare, modificare e montare il suono con l’immagine in movimento.
Le avanguardie si occuparono diversamente di questi rapporti: erano perlopiù interessate alla geometria, al legame che unisce le onde luminose e quelle acustiche, al potere evocativo e rammemorante della pellicola, oppure alla magia simmetrica e infinitamente invertibile della visione. Sul piano puramente formale la Symphonie Diagonale di Viking Eggeling, del 1924, è un’esplorazione astratta degli intervalli nel girato, tecnica molto vicina ad alcune avanguardie notazionali in musica. In Mosaic e Lignes, del canadese Norman McLaren, due film girati intorno alla metà degli anni ‘60, seguiamo punti e linee che si muovono e sovrappongono nello spazio, combinate con una bella musica suonata.
Alla stessa altezza, lavori recenti sulla generazione di forme e suoni a partire da algoritmi e codici informatici riprendono e sviluppano questo tipo di estetica, incamerando nel processo creativo i nuovi stimoli della complessità e della realtà virtuale. In modo ancora diverso Ipnotic Circus, del collettivo milanese Otolab, riprende e adatta dal vivo l’idea di Marcel Duchamp impressa nel film d’avanguardia Anemic Cinema. Similmente, gli Estudios sul colore di Oriol Sànchez attorno al 2000 riprendono le tecniche d’incisione della pellicola utilizzate dall’avanguardia lettrista primo-novecentesca e in diversi lavori filmati in Super8 negli anni ‘60 e ‘70. Gli studi di Hans Richter sul ritmo e la profondità sono altri esempi precursori di questo genere di approccio al suono e all’immagine, forse più sorprendenti dei corrispettivi contemporanei per la bellezza artigiana, la sapienza tecnica che li contraddistingue e lo spaesamento che suscitano nel presente.
Ma il tema storico che forse più d’ogni altro snoda la complessa matassa di esperimenti audiovisuali e li orienta verso un bivio è quello della memoria. Più caro al cinema e al documentario, il sentimento della melanconia e la memoria si legano al soggetto umano e agli stadi della vita, ma anche a una concezione antiscientifica della percezione e della coscienza in rapporto con la natura. La capacità di suscitare emozioni, di indagare l’animo umano attraverso l’uso dell’immagine e del suono, a volte uniti nella parola, trova nei lavori di Bill Viola uno dei massimi livelli di intensità. Dunque: audiovisual, video arte, musica?
Impressioni melanconiche sono evocate da Castro Street di Bruce Baillie, del ‘66, il quale gioca sulla decontestualizzazione del suono e dell’immagine rispetto alla fonte fisica che li produce, trasformando l’omonima strada di San Francisco in una serie d’impressioni fuggevoli, sconnesse e trasognanti. Diversamente, fonti scientifiche, sound recording estremo, software, documentario e finzione sono uniti ed ecceduti nel magnifico lavoro del gruppo inglese Semiconductor, Brillant Noise del 2006, in cui lo spettatore viene catturato da un Sole magico, sonoro, antico, tale da generare rapporti indecidibili tra i suoni uditi e le immagini viste, rapporti reali e al tempo stesso immaginari.
Pubblicato su Exibart.onpaper n. 55