La verità della finzione
L’elettroacustica è un ingrediente essenziale del cinema mainstream. Ma non è sempre stato così. Dai primi esperimenti di sound design alla scrittura di vere e proprie partiture sulla traccia ottica, fino alla diffusione olofonica, il rapporto tra suono e immagine in movimento ha compiuto straordinarie rivoluzioni. Il cui passato appare avvolto da un’aura tecnologicamente inimitabile.
Gravity, lo spettacolare thriller spaziale del messicano Alfonso Cuarón uscito in tutto il mondo nel 2013, è un modello di simulazione 3d. Non a caso, il lavoro svolto per ricreare la sensazione acustica del vuoto è valso l’Oscar al team di sound designer del film. Tuttavia quest’idea del vuoto, concepita per il nuovo sistema Atmos a 128 canali (in Italia lo si trova solo in pochi cinema multisala, nei pressi di qualche raccordo stradale di città, o nelle esauste borgate di provincia), è così esteriore da far dimenticare che lassù, fuori dall’atmosfera, la propagazione delle onde sonore sarebbe inavvertibile ai nostri sensi. L’immersione in cui si è gettati durante la proiezione del film, così come la ricerca d’interattività affine a quella di un videogioco, spostano il peso dell’emozione dal mentale al corporeo. L’udito è ricondotto a una forma di tatto per cui non basta più iperamplificarel’azione, ma occorre anche poterla sentire vibrare: uno zelo tecnologico, che orienta tanto la poetica del film quanto la politica dei suoi investitori.
Il suono di Gravity è strabiliante, ma il realismo con cui viene entusiasticamente presentato, nella misura in cui è sprovvisto di ogni fondamento, rovina il magico potere di verità della finzione cinematografica. All’opposto, il celebre accostamento di Strauss e i modellini delle astronavi in orbita in 2001 Odissea nello Spazio, essendo impensabile, soddisfa le più celestiali, e in fondo realistiche, rappresentazioni del vuoto extraterrestre.
Evidentemente il progresso dell’elettroacustica è indivisibile da quello della tecnologia, e oggi lo spettatore viene invitato a spostarsi gradualmente al centro del prodotto-spettacolo, come consumatore e destinatario delle stimolazioni neurofisiologiche. Ma non sempre è stato così: il rapporto tra forma e contenuto ha spesso cercato equilibri diversi.
Un tentativo più musicale di sonorizzazione è rintracciabile in Les Astronautes diWalerian Borowczyk e Chris Marker, del 1959. In questo film, Andrzej Markowskiconcepisce musica e design come un corpo unico; un po’ come nei film d’animazione del dopoguerra, ma usando mezzi che ricordano piuttosto le manipolazioni elettroniche di Dockstadter. Sono gli anni degli Uccelli di Alfred Hitchcock e le nuove applicazioni della radiofonia spingono i compositori a riflettere sulle possibilità spaziali della musica e a impiegare concetti come sequenza, piano, montaggio nella ricerca di forme di visualizzazione del suono. Sono celebri le collaborazioni di Bernard Parmegiani,Krzysztof Penderecki e John Cage con il cinema avantgarde, ma anche le ricerche condotte autonomamente da Iannis Xenakis nel campo della notazione grafica, le quali tuttavia rimangono focalizzate principalmente sulla composizione, in un processo in qualche modo inverso, che va dalla visione alla generazione del suono.
Da oltre sessant’anni l’elettronica è la psyché del cinema e della musica: basti pensare alle dilatazioni sonore di Eduard Artemev in Stalker, all’inimitabile uso dell’amplificazione ambientale fatto da David Lynch in Eraserhead, oppure alla geniale rilettura della musica classica tedesca in Arancia Meccanica e alle sessioni live di sintetizzatore di Jerry Goldsmith in Alien, solo per citare alcuni esempi celebri.
Non è compito nostro elencare qui i film con l’elettroacustica più influente, ma vale pur sempre la pena ricordare come i lavori più significativi del nostro tempo nascano in una misura di suono e luce interna e ulteriore, in cui la tecnologia è dissolta e resa invisibile.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21